martedì 13 dicembre 2011

Medicine: se si assumono è meglio non guidare. Gli italiani lo sanno ma non sempre lo fanno

Tre italiani su quattro sanno che molti farmaci non vanno presi prima di mettersi al volante ma se ne disinteressano. Lo sottolinea l’Osservatorio di Linear Assicurazioni (Unipol). Donne e adulti i più coscienziosi mentre è allarme tra i giovani, il 17% è infatti all’oscuro del problema.


13 DIC - Secondo gli ultimi studi di settore, acquistare ed assumere medicinali è diventato per gli italiani una consuetudine. Tra i più utilizzati quelli contro le malattie cardiovascolari, seguiti da quelli gastrointestinali e per il sistema nervoso centrale. Ma gli italiani, da tempo informati sui pericoli al volante a causa dell’alcol, sanno che molte di queste medicine possono avere effetti collaterali pericolosi se ci si mette alla guida? Quali servizi di informazione sono più diffusi?
Rischio antistaminici. Sul tema ha effettuato un’indagine l’Osservatorio sui Servizi di Linear Assicurazioni, la compagnia on line del gruppo Unipol. Farmaci e guida sono infatti un binomio molto pericoloso. Un esempio? Gli antistaminici, di cui fanno ampio uso gli oltre 10 milioni di italiani che soffrono di allergie, spesso determinano una forte sonnolenza. Un fattore di grave rischio, considerando che un incidente su cinque è causato da colpi di sonno improvvisi.
Donne più consapevoli dei rischi. La nuova ricerca dell’Osservatorio, commissionata all’istituto Nextplora, descrive una popolazione  consapevole: il 74% degli italiani non solo sa che molti dei medicinali in commercio sono sconsigliati prima di mettersi al volante, ma rispettano anche le tempistiche indicate sulla confezione. Le donne (78%) si dimostrano più coscienziose degli uomini (69%), forse perché dovendo spesso occuparsi del trasporto dei figli, sono più attente ai possibili rischi. Particolarmente attenti anche gli over 45 (81%) mentre molto meno i giovani tra i 18 e i 24 anni (58%), che sono anche la categoria più all’oscuro del problema (17%).
Un guidatore su 7 è conscio dei pericoli ma se ne disinteressa. Che dire dei guidatori che pur essendo a conoscenza dei rischi, si mettono lo stesso alla guida dopo aver assunto medicinali? Parliamo del 13% degli intervistati, un guidatore su sette, una percentuale tutt’altro che trascurabile.
Uno su 3 evita di mettersi al volante prima che sia passato l’effetto del medicinale. Se qualcuno pensa che si tratti di rischi teorici dovrà ricredersi, se è vero che quasi un italiano su cinque (17%) afferma di conoscere qualcuno che ha avuto problemi alla guida proprio a seguito di un medicinale. E dovrà forse prendere un ansiolitico quando saprà che uno su tre (33%) ha continuato il viaggio senza fermarsi e senza preoccuparsene. Bene hanno fatto invece coloro che hanno saggiamente preferito fermarsi ed aspettare che passasse l’effetto (29%) o deciso di cedere il volante a chi era con lui in macchina (27%).
Nove persone su 10 si informano sul bugiardino. In che modo gli italiani  si informano dei possibili effetti collaterali dei medicinali alla guida? Per l’88% degli intervistati il foglietto illustrativo all’interno delle confezioni resta sempre il mezzo migliore per conoscerli, mentre solo il 6% chiede notizie a riguardo al proprio medico o farmacista. Purtroppo in nessun caso chi gestisce le nostre strade e autostrade e i servizi connessi si preoccupa di farlo.


Fonte: ilfarmacistaonline.it

venerdì 2 dicembre 2011

Colesterolo. Attenzione alle terapie. Metà dei pazienti trattati con farmaci sbagliati

 Che succede quando i pazienti ad elevato rischio per patologie cardiache ricevono trattamenti non adeguati? Oltre a una cattiva aderenza alla terapia, il problema si riflette anche in un consumo inappropriato di risorse e quindi un aumento dei costi per il sistema sanitario nazionale. Secondo lo studio STAR (Statins Target Assessment In Real Practice), condotto dalla società CliCon che si occupa di ricerca sanitaria, in collaborazione con l’azienda biofarmaceutica AstraZeneca, questo accadrebbe addirittura per oltre il 50% dei pazienti a rischio cardiovascolare.
Lo studio, tutto italiano, è stato condotto in 5 ASL su 912 pazienti con obiettivo terapeutico di riduzione di oltre la metà dei livelli di LDL, ovvero del cosiddetto “colesterolo cattivo”.
 
In Italia, le persone che hanno un profilo lipidico non ottimale sono numerose, sia pure meno che nei paesi del Nord Europa. Questi pazienti, che presentano alti livelli di rischio cardiaco, per il nostro sistema sanitario hanno diritto alle statine in regime di rimborsabilità. Ma gli obiettivi da raggiungere non sono gli stessi per tutti, cambiano da paziente all'altro, a seconda dei livelli di colesterolo di partenza. Inoltre, non tutte le statine disponibili sono efficaci allo stesso modo.
Non pochi tra questi pazienti, ad esempio, a causa del proprio profilo di rischio cardiovascolare, dovrebbero assumere terapie specifiche per ridurre in modo drastico i livelli di colesterolo. “Nei pazienti che noi definiamo a rischio alto e molto alto, quelli cioè che già hanno subito un precedente infarto o ictus, hanno placche ateromatose a livello carotideo, oppure pazienti affetti da angina o da diabete – ha spiegato Andrea Mezzetti, presidente della Società Italiana per lo Studio dell’Aterosclerosi  – le Linee Guida raccomandano di mantenere  il colesterolo cattivo LDL a livelli inferiori rispettivamente a 100 mg/dL e addirittura a 70 mg/dL”.
 
Questi pazienti dovrebbero essere trattati con farmaci efficaci nel migliorare il profilo lipidico,attraverso una maggiore riduzione del colesterolo-LDL associata ad un maggior incremento del colesterolo-HDL, il cosiddetto “colesterolo buono”. Nello studio è stata presa in considerazione la rosuvastatina, una molecola ad alta efficacia e tollerabilità, che permette ad una percentuale molto alta di pazienti di raggiungere i target terapeutici consigliati dalle linee guida internazionali.
Lo studio STAR ha però messo in evidenza che oltre il 50% dei pazienti non riceve i farmaci anticolesterolo raccomandati, nelle dosi efficaci per raggiungere i corretti livelli e con la durata adeguata, con conseguenti sprechi per il sistema sanitario. Secondo i ricercatori, nelle persone a rischio cardiovascolare, il giusto farmaco consentirebbe di ridurre mediamente del 50% i livelli di colesterolo LDL. Tale riduzione si assocerebbe a una corrispondente diminuzione del 44% dell’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori, del 47% del rischio combinato di infarto, ictus e mortalità; del 54%, del rischio di infarto; di poco meno del 50% del rischio di ictus e del 20% della mortalità totale.
 
L’appropriatezza prescrittiva secondo i medici ha quindi implicazioni dal punto di vista del rischio cardiaco per i pazienti e dei costi della salute. “La mancata protezione cardiovascolare a distanza di anni causerà una serie di gravi eventi, il cui  costo assistenziale sarebbe potuto essere evitato”, ha spiegato Luca Degli Esposti, presidente di Clicon.
Lo studio ha confermato che nei  pazienti con obiettivo terapeutico di riduzione ≥ 50% dei livelli di LDL, l’appropriatezza della prescrizione, l'impiego di statine ad alta efficacia e l'aderenza alla prescrizione costituiscono i fattori chiave del  raggiungimento dell’obiettivo terapeutico. Dunque, se la prescrizione è fatta secondo un criterio di appropriatezza, sulla base di quanto raccomandato dalle Linee Guida in base al livello obiettivo del rischio cardiovascolare, la terapia ipocolesterolemizzante riduce il rischio di andare incontro a un evento cardiovascolare. “La chiave dev’essere quella della sostenibilità – ha concluso Degli Esposti – e questa, a sua volta, può essere raggiunta a condizione che in ogni situazione clinica sia utilizzato il farmaco meglio in grado di raggiungere l’obiettivo terapeutico al minor rapporto costo/efficacia, e che il paziente assuma realmente il farmaco prescritto ai dosaggi stabiliti dal medico. Sono queste due condizioni che contribuiscono a ridurre il rischio di eventi cardiovascolari gravi, con le connesse conseguenze in termini di salute e di costi”.




Fonte: ilfarmacistaonline.it

Il latte materno


Bimbi più intelligenti se allattati al seno
più sono i mesi, più aumenta il QI

L'allattamento al seno aumenta il quoziente intellettivo (QI) dei bimbi. Lo afferma il risultato di una lunga ricerca epidemiologica svolta da Wieslaw Jedrychowski dell'università Jagiellonian di Cracovia, in Polonia, pubblicata di recente sull'European Journal of Pediatrics e riportata dal magazine Scientific American.
Il latte di mamma fa qualcosa di più che assicurare al bebè una salute di ferro: innumerevoli le ricerche che negli ultimi anni hanno dimostrato la superiorità del latte materno su quello artificiale, sia per il corretto sviluppo del bebè sia per la prevenzione di molte malattie. 
Dai vari studi è emerso che i bimbi che hanno preso il latte materno hanno abilità cognitive più sviluppate e un QI proporzionale ai mesi di allattamento: mediamente il loro QI era 2,1 punti superiore ai coetanei non allattati al seno se i bebè avevano preso il latte materno per tre mesi; 2,6  punti in più se l'allattamento al seno è durato per 4-6 mesi; 3,8  punti in più se l'allattamento al seno è durato più di sei mesi.
A una domanda, però, gli studiosi non sono riusciti a dare una risposta "chimica": qual è l'ingrediente magico del latte materno che fa la differenza aiutando lo sviluppo dell'intelligenza del bambino? Qui la scienza arriva a ipotizzare che possa non trattarsi di un semplice composto chimico che manca nel latte artificiale. Piuttosto, potrebbe essere un 'ingrediente' complesso basato sulla qualità del latte ma soprattutto sulla speciale interazione che si crea fra madre e figlio durante la poppata.