martedì 31 gennaio 2012

Brevettata la molecola che ci salverà dall’Alzheimer


È italiana la ricerca che ha portato al brevetto di quello che potrebbe essere il definitivo vaccino per l’Alzheimer. Per ottenerlo gli scienziati del Cnr hanno cercato di minimizzarne i rischi per l’organismo e di ottimizzare l’efficacia terapeutica.
 
La ricerca italiana d’alta qualità spesso non va di pari passo con la brevettazione, tanto che pochi mesi fa uno studio econometrico aveva denunciato proprio l’enorme differenza tra il numero di studi prodotti su suolo italiano, rispetto al numero di brevetti concessi. Ma sembra che per una volta quest’abitudine sia stata interrotta: il merito è del brevetto appena concesso all’Istituto di Genetica e Biofisica (Igb-Cnr) e all’Istituto di Biochimica delle Proteine (Ibp-Cnr) del Cnr, che riguarda un vaccino di nuova generazione contro l’Alzheimer dal nome poco intuitivo, (1-11)E2.
La molecola, come spiega uno studio pubblicato a luglio sulla rivista Immunology and Cell Biology, è capace di innescare una risposta immunitaria contro il beta–amiloide, ovvero proprio quel peptide che si accumula nel cervello delle persone affette dalla patologia neurodegenerativa. A partire da essa è stato sviluppato un vaccino, che oltre al brevetto appena ottenuto, ha visto una application per un brevetto internazionale.

Per ottenere questa proteina chimerica, gli scienziati hanno fuso due proteine diverse: un piccolo frammento dello stesso peptide beta-amiloide e una proteina batterica. La sostanza è capace, in provetta, di auto-assemblarsi formando una struttura simile a un virus per forma e dimensioni. “Sono ormai 10 anni che ricercatori di tutto il mondo stanno esplorando la possibilità di prevenire l’Alzheimer con un vaccino: le prime sperimentazioni sull’uomo hanno acceso molte speranze, ma anche evidenziato possibili effetti collaterali gravi, che ne impediscono l’utilizzo”, ha spiegato Antonella Prisco, dell’Igb-Cnr, coordinatrice della ricerca. “Usando il bagaglio di esperienze accumulato, abbiamo messo a punto la molecola (1-11)E2, cercando di minimizzarne i rischi per l’organismo e di ottimizzarne l’efficacia terapeutica”.
La sperimentazione è attualmente nella fase pre-clinica, che prevede la somministrazione del vaccino a topi normali. Il passo successivo consiste nel testare l’efficacia terapeutica e i possibili effetti collaterali in topi transgenici che sviluppano una patologia simile all’Alzheimer. “Il vaccino che abbiamo prodotto induce rapidamente una forte risposta di anticorpi contro la proteina beta-amiloide e polarizza la risposta immunitaria verso la produzione di una citochina anti-infiammatoria, l’interleuchina-4, confermando le proprietà immunologiche auspicate”, ha precisato la ricercatrice dell’Igb-Cnr.

Proprio per questo vaccino sono state depositate le due domande di brevetto, di cui la prima  è già stata accettata. “Attualmente si ricorre ampiamente ai vaccini per prevenire le malattie infettive, ma anche una patologia come l’Alzheimer potrebbe essere prevenuta o curata mettendo in atto un processo simile”, ha commentato Piergiuseppe De Berardinis dell’Ibp-Cnr. “Il vaccino induce la produzione di anticorpi, questi ultimi si legano al peptide che causa la malattia, favorendone così l’eliminazione”.
Ad oggi i due team di ricerca stanno ancora lavorando, come ha spiegato ancora De Berardinis. “Il prossimo passo è quello di convogliare la risposta immunitaria sui bersagli desiderati”, ha concluso: “Per questo stiamo lavorando sui ‘carrier’, molecole o micro-organismi utili proprio a questo scopo”.

fonte: ilfarmacistaonline.it

Farmacia Maddaloni 

lunedì 30 gennaio 2012

Libro bianco sui bambini. Uno su tre mangia troppo e male. E i genitori subiscono


"Piccoli tiranni" in cucina: così i pediatri italiani nel rapporto sulla salute dei bambini. Sovvrappeso il 34% dei piccoli. E poi c'è l'allarme nascite (- 74% negli ultimi 140 anni). Resta infine un grave gap assistenziale tra Nord e Sud e in Calabria la mortalità infantile è tre volte più alta che a Trento.
 
I bambini italiani, pur se gravati come i loro genitori da molti chili di troppo, da sedentarietà e da pessime abitudini a tavola, riescono ancora a cavarsela e le loro condizioni di salute sono complessivamente buone, anche grazie a una rete di protezione familiare che è una tipica tradizione “made in Italy” e che spesso supplisce alle reti di servizi sociali ancora carenti e disomogenee lungo lo Stivale. È questo il quadro emerso nel corso della presentazione, stamane, del primo Libro Bianco “La salute dei bambini”, pubblicato dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni italiane in collaborazione con la Società italiana di pediatria (Sip).
 

Niente di buono sul fronte delle abitudini alimentari che, anzi, sono in peggioramento con molti problemi di bilancia, in particolare al Sud. Il 22,9% dei bambini di 8-9 anni è risultato in sovrappeso e l’11,1% in condizioni di obesità. “Oggi, purtroppo a tavola comanda il bambino - ha spiegato Alberto Ugazio, coordinatore del Dipartimento di Medicina Pediatrica dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma e presidente della Sip - non c’è dubbio che oggi i genitori non sono più in grado di indicare ai figli le cose giuste e sbagliate a tavola, o non hanno tempo o non sono preparati per farlo”. Così i bambini prendono spazio e si comportano come piccoli tiranni: “Una delle abitudini che il pediatra nota di più oggi – ha raccontato Ugazio – è che i genitori chiedono al bambino anche molto piccolo cosa vuol mangiare, ma il bambino non ha gli strumenti per decidere per il proprio bene”. C’è un insieme di fattori sociologici e psicologici familiari che convergono verso questo e i cambiamenti della struttura familiare hanno influito moltissimo. "Questi - ha proseguito il pediatra - sono tutti elementi che favoriscono una alimentazione sregolata a cui si deve sommare anche una scarsa attività fisica all'aperto da parte dei bimbi". 
 
Un altro dei più gravi problemi segnalati nel rapporto è che l’Italia rischia di rimanere un Paese di “nonni senza nipoti”, tanto sono bassi natalità e ricambio generazionale. Basti pensare che dal 1871 al 2009 la natalità si è quasi dimezzata (-74,25%) e attualmente si assesta al 9,5‰, cioè nascono 9,5 bebè ogni 1000 abitanti, contro, solo per fare qualche esempio, 12,8‰ della Francia, 10,8‰ della Spagna, 12‰ della Svezia e 12,8‰ del Regno Unito. 
Numeri preoccupanti, al punto da dire che “mai in nessun altro Paese del mondo si è avuto un tale abbassamento dei tassi di fecondità e natalità in così breve tempo”, come spiegato da Walter Ricciardi, direttore dell’Istituto di Igiene della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica di Roma. Tale fenomeno, come sottolineato nel testo, è stato senza dubbio prodotto e aggravato nel corso degli anni da una grave carenza di politiche a supporto della famiglia che hanno reso l’Italia un Paese "non a misura di bambino" e con politiche del welfare non orientate né ai bisogni dell’infanzia né nell’incentivare le giovani coppie a metter su famiglia. 
 
 
Dal Libro Bianco è però emerso chiaramente l’incremento delle nascite da cittadini stranieri,soprattutto a partire dall’anno 2003. Le regioni del Nord in particolare sono quelle con la più elevata incidenza di nati da almeno un genitore straniero: l’Emilia-Romagna (madre 25%; padre 21,7%), il Veneto (madre 24,4%; padre 21,6%) e la Lombardia (madre 23,2%; padre 20,6%) sono quelle con i tassi più elevati. Al contrario nel Mezzogiorno la quota di nati con almeno un genitore straniero risulta non solo inferiore al dato nazionale, ma estremamente contenuta. 
 
Ma a preoccupare non è soltanto il misero tasso di natalità registrato. Tra le criticità riscontrate nel rapporto si evidenzia anche “la profonda disomogeneità dei servizi assistenziali nelle diverse regioni che si traduce in opportunità di salute diverse. In altri termini, essere bambino nel Sud d’Italia non è egualmente facile che esserlo nel Nord-Est del Paese. A dimostrazione di tutto questo il range di variabilità dei tassi di mortalità infantile regionali che, nel triennio 2006-2008, è oscillato da 1,60 casi per 1.000 della PA di Trento a 4,82 casi per 1.000 della Calabria. 
 
 
Disomogenea appare anche l’assistenza ospedaliera in pediatria, manca, in particolare in alcune zone, una idonea programmazione degli interventi assistenziali e la capacità di creare un filtro che parta dal pediatra per indirizzare al meglio il bambino verso il percorso assistenziale che più risponde ai suoi bisogni, evitando dunque tutte quelle ospedalizzazioni inutili. 
Fortunatamente oggi i bimbi italiani possono ancora fare affidamento su una fitta rete di pediatri territoriali (il numero di Pediatri di Libera Scelta a livello nazionale nel periodo 2001-2008 è aumentato del 6,3%, passando da 7.199 a 7.649); ma non è remoto il rischio che, già a partire dal 2015, i pediatri disponibili per l’assistenza primaria ai bimbi italiani diminuiranno in modo drastico in quanto una grande quota di questi andrà in pensione e, poiché l’accesso alle scuole di specializzazione prevede il numero chiuso, non sarà possibile assicurare il turn over. Stando ai risultati di una recente indagine della Società Italiana di Pediatria (Sip), la progressiva riduzione di pediatri, già in atto dal 2010, porterà dagli attuali 15 mila professionisti ai 12 mila nel 2020, che scenderanno a quota 8000 nel 2025. 
 
Tutto questo in realtà non è stato visto "necessariamente come un grave problema" da parte del presidente della Sip, Alberto Ugazio. “La strutturazione attuale è ormai obsoleta – ha spiegato – in Usa con la riforma Obama si sono create le ‘pediatric home’, strutture capaci di garantire una continuità assistenziale ed anche una multidisciplinarità che oggi noi non abbiamo”. “In queste strutture territoriali, sotto il lavoro di coordinamento del pediatra – ha concluso Ugazio – lavorano ad esempio anche i dietisti. Si tratta di un modello interessante che sta prendendo piede anche in Spagna”.

fonte: ilfarmacistaonline.it


Farmacia Maddaloni

venerdì 27 gennaio 2012

Celiachia. Il segreto per sconfiggerla in una sola molecola





La celiachia è una intolleranza alimentare permanente, su base autoimmune, causata dalla gliadina, proteina presente nelle farine di grano, segale e orzo. La molecola, secondo le stime, risulterebbe tossica per almeno una persona ogni cento, e la condizione sarebbe permanente. O almeno, lo sembrava. Secondo uno studio dell’Iss, pubblicato sulla rivista Journal of Cereal Science, la nocività di questa proteina nelle persone celiache potrebbe infatti essere combattuta da un decapeptide (molecola costituita da 10 amminoacidi) naturalmente presente in alcuni cereali. La ricerca è stata condotta in collaborazione con l’Università di Foggia e il CRA (Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura).

Il decapeptide, denominato pRPQ, è in grado di prevenire la tossicità della gliadina in vari modelli in vitro della malattia, compresa la coltura di mucosa intestinale di pazienti celiaci, tessuto che riproduce i meccanismi di tossicità del glutine in vivo. “Abbiamo testato questo effetto protettivo in particolare su tre modelli”, ha spiegato Marco Silano, direttore del Reparto Alimentazione, Nutrizione e Salute dell’Iss e co-autore dello studio a Quotidiano Sanità. “Inizialmente abbiamo testato pRPQ sulle cellule k652, un gruppo di unità biologiche che quando entrano in contatto con la gliadina si agglutinano, un termine tecnico che viene usato per dire che si avvicinano. Su questo modello abbiamo ottenuto il primo risultato positivo, visto che il peptide preveniva completamente l’agglutinazione”, ha continuato il ricercatore: “Poi abbiamo usato le cellule T84, di linea intestinale umana, che si attivano a contatto con la proteina che causa la celiachia. Anche in questo caso, il peptide pRPQ riusciva a bloccare l’attività delle cellule”.
Infine, è arrivato il test più difficile, quello sul tessuto che è considerato il golden standard per la celiachia: una biopsia di mucosa duodenale/intestinale di pazienti affetti dall’intolleranza. Questo tessuto, infatti, a contatto con la gliadina si comporta esattamente come farebbero gli organi delle persone celiache. “Abbiamo messo a confronto l’attivazione del sistema immunitario nei due casi opposti: nel caso in cui il tessuto veniva messo a contatto con la sola proteina tossica, e il caso in cui a questa veniva ‘affiancato’ anche il peptide”, ha spiegato il ricercatore. “Così abbiamo dimostrato che di poter prevenire la risposta autoimmune, a patto che le due molecole (gliadina e pPRQ) si trovavassero in un rapporto di circa uno a uno”.

Una delle cose interessanti di questo peptide, poi, è che si tratta di una molecola presente normalmente in alcuni cereali. “La cosa bella di pPRQ è che non si tratta di un peptide di sintesi, una molecola disegnata artificialmente”, ci ha spiegato Silano. “Esso è presente naturalmente in alcuni cereali, come grano e segale, che sono in generale degli ‘alimenti proibiti’ per i celiaci. Il punto è che in questi cereali la molecola è presente in rapporto insufficiente rispetto alla quantità di gliadina”.
Si potrebbe quindi ipotizzarne l'uso in terapia, qualora studi in vivo sul paziente ne confermassero l'azione protettiva. La molecola potrebbe in questo caso consentire ai soggetti celiaci un normale consumo di glutine e garantire un miglioramento della loro qualità di vita. “Non per forza si tratta di sviluppare nuovi farmaci, ma si potrebbe ad esempio pensare a dei supplementi, integratori o alimenti che aumentino la quantità di peptide alla quale l’organismo delle persone celiache viene esposto”, ha spiegato il ricercatore.

Lo studio apre dunque nuovi potenziali campi per la ricerca. Che potrebbero cambiare la vita alle persone che sono affette da un’intolleranza che, a tutt'oggi, è controllabile solo attraverso l'esclusione del glutine dal regime alimentare e il ricorso a diete speciali. “Dovremo ancora lavorare in questo campo – ha concluso Silano – ad esempio per risolvere il problema della biodisponibilità dell’organismo a questo peptide, ovvero dovremo capire la quantità della molecola somministrata tramite alimenti o integratori può essere assimilata ed entrare in circolazione nell’organismo”. Come a dire: un conto è avvicinare in vitro la molecola ai tessuti malati, un conto è studiare il modo di farla sopravvivere intatta alla digestione, in modo che il trattamento possa essere efficace.

giovedì 26 gennaio 2012

CELLULE STAMINALI EMBRIONALI SU OCCHI.

NEW YORK - Due donne affette di una grave forma di maculopatia hanno avuto un parziale recupero della vista dopo essere state sottoposte a cure sperimentali con cellule staminali embrionali. Si tratta della prima e più importante applicazione di questa scoperta sugli esseri umani, ad un decennio dalla scoperta del potenziale delle staminali embrionali.

"Questo studio è incoraggiante, ma è prematuro dire che abbiamo trovato una terapia", ha detto Paul Knoepfler dell'Università della California a Davis. La scorsa estate, le due pazienti - che avevano perso la vista per due problemi diversi - hanno ricevuto un impianto retinico in un occhio all'Università di Los Angeles. Dopo quattro mesi, entrambe mostravano segni di miglioramento. "Ma - avverte Paul Sternberg, presidente dell'American Academy of ophthalmology - non bisogna esagerare la portata della scoperta". Le due donne hanno mostrato segni di miglioramento, ma continuano a essere considerate legalmente cieche.

La ricerca, finanziata da Ucla e Advanced cell technology, è stata pubblicata online dall'autorevole rivista scientifica The Lancet 1 ed era mirata a stabilire se l'uso di cellule staminali sugli essere umani fosse sicuro. Quello che interessava i ricercatori era verificare se le cellule impiantate si fossero attaccate alla membrana dell'occhio e che non ci fossero segni di rigetto o di crescita anomala. A distanza di quattro mesi dall'intervento, le risposte a questi interrogativi sono state positive. Il prossimo obiettivo della ricerca sarà di sperimentare la cura con le staminali nelle fasi iniziali della malattia per verificarne i benefici sulla visione centrale.

Il metodo utilizzato dai ricercatori consiste nel prelievo di cellule sane immature da un embrione umano, queste vengono poi manipolate e spinte a formare le cellule che rivestono la parte posteriore dell'occhio, la retina. L'occhio è uno degli organi privilegiati per questo tipo di esperimenti perché 'immunoprivilegiato', nel senso che di solito non produce una forte reazione immunitaria. In entrambi casi, nelle pazienti, non ci sono stati effetti collaterali indesiderati come lo sviluppo di tumori o la sovrariproduzione delle staminali.

Trial relativi alla stessa tecnica sono iniziati anche al Moorfields Eye Hospital di Londra, ma gli esperti avvertono che passeranno ancora anni prima che questi trattamenti siano testati e dichiarati sicuri ed efficaci. 

La notizia della scoperta viene appena due mesi dopo che Geron Corporation, azienda pioniere nella ricerca sulle cellule staminali, aveva annunciato di aver interrotto il primo test clinico con staminali. 


Farmacia Maddaloni.

lunedì 23 gennaio 2012

CELLULITE EPITELIALI IN VENE ED ARTERIE


L'apparato cardiovascolare è formato da organi "cavi":
§                     Cuore: è un muscolo particolare, infatti è di tipo striato, ma involontario. Ha due compiti fondamentali: la struttura muscolare pompa il sangue in tutti gli organi attraverso le arterie, mentre il tessuto specifico di conduzione, dà origine al battito cardiaco.
§                     Vasi sanguigni: strutture che permettono il trasporto del sangue all'organismo. Essi possono essere classificati in:
§                                 Arterie: vasi sanguigni che nascono dai ventricoli e portano il sangue poco ossigenato ai polmoni (attraverso l'arteria polmonare che nasce dal ventricolo destro) e sangue ossigenato a tutto il corpo (attraverso l'aorta che nasce dal ventricolo sinistro);
§                                 Vene: vasi sanguigni che trasportano sangue carico di anidride carbonica ai polmoni e sostanze di rifiuto a fegato e a reni per la depurazione; le loro pareti sono meno spesse di quella delle arterie, poiché la pressione del sangue è meno elevata;
§                                 Capillari: permettono gli scambi fra il sangue e i tessuti, infatti sono di dimensioni microscopiche e si trovano fra le cellule.
Una delle caratteristiche più sorprendenti del sistema circolatorio dei vertebrati è il letto capillare, una fitta rete che collega il circuito arterioso e quello venoso. Il lato arterioso di ciascun letto capillare porta il sangue ossigenato dal cuore ai tessuti, mentre il sangue povero di ossigeno raccolto dai tessuti risale attraverso le vene al cuore, aiutato in questo dalla pompa muscolare, cioè dalla pressione esercitata dai muscoli sulle vene.
Esistono due grossi circuiti arteriosi: la grande circolazione o circolazione sistemica e la piccola circolazione o circolazione polmonare. La grande circolazione prende l'avvio dal ventricolo sinistro che, contraendosi, spinge il sangue ricco di ossigeno nell'aorta e da qui in tutte le arterie del corpo, che trasportano il sangue ossigenato ai diversi tessuti e apparati. Dai tessuti, il sangue attraverso, il sistema delle vene cave, raggiunge l'atrio destro del cuore. Dall'atrio destro inizia la piccola circolazione: il sangue passa prima nel ventricolo destro e da qui viene pompato, tramite l'arteria polmonare, nei polmoni dove negli alveoli circondati da una ricca rete di capillari, cede l'anidride carbonica e si arricchisce di ossigeno. Tramite le vene polmonari raggiunge l'atrio sinistro del cuore e da qui riparte tutto il ciclo precedente.
Ricercatori dell'Università di Cambridge hanno riprodotto con successo tutti i tipi principali di cellule che compongono vene ed arterie.
La ricerca potrebbe portare a sviluppare vasi sanguigni in vitro, così che i chirurghi possano impiantarli come alternativa ai bypass coronarici e allo stenting. Lo sviluppo di vene ed arterie in laboratorio potrebbe anche essere usata per pazienti in dialisi o riparare danni in seguito ad incidenti.
"Questa ricerca rappresenta un passo importante verso la possibilità di generare il giusto tipo di cellule utili a costruire nuovi vasi sanguigni. Siamo molto eccitati dal potenziale dello studio che potrebbe essere utilizzato per costruire un'arteria artificiale in una provetta o iniettando le cellule staminali nel cuore e formarla direttamente al suo interno. Ora abbiamo gli strumenti per progettare tutti i diversi tipi di vasi sanguigni appropriati per ogni paziente".
La tecnica di riprogrammazione delle cellule epiteliali è risultata efficace nel 99% dei test, secondo quanto pubblicato su Nature Biotecnology. A differenza di precedenti tentativi, questa tecnica non ha bisogno di plasma, solitamente esogeno, riducendo quindi i rischi di rigetto. 

venerdì 20 gennaio 2012

Dolore cronico. Terapie solo per un paziente su due.

Un’indagine condotta dall’Associazione vivere senza dolore rileva che la sofferenza fisica colpisce oltre 6 cittadini su 10 ma solo il 47,7% segue un trattamento. L’origine è di natura non oncologica per il 93,4% del campione e nel 45,2% dei casi è dovuta all’artrosi.


Soffrono spesso di dolore cronico ma 7 volte su 10 hanno difficoltà ad individuare sul territorio i centri di cura specializzati e non conoscono la Legge 38, che dal marzo 2010 tutela il loro diritto a un’assistenza più equa e qualificata. Solo nella metà dei casi si rivolgono a un clinico – di solito il medico di famiglia (57,9%), raramente il terapista del dolore (5,8%) – e reputano non adeguati i farmaci prescritti, rappresentati per il 38,5% dai Fans e soltanto per il 3,1% dagli oppioidi forti.

E’ questo, in sintesi, il ritratto degli italiani che emerge da una ricerca effettuata dall’Associazione pazienti vivere senza dolore, nel corso della campagna itinerante CU.P.I.DO. – Cura Previeni Il Dolore. Il tour, promosso nel 2011 con il patrocinio del Ministero della Salute e un grant incondizionato di Mundipharma, ha toccato 14 città della Penisola: Viterbo, Perugia, Ancona, Forlì, Brescia, Vicenza, Torino, Genova, Pistoia, Foggia, Napoli, Bari, Messina e Roma. L’iniziativa prevedeva la presenza di un gazebo nelle piazze, dove i cittadini potevano recarsi per incontrare qualificati specialisti, dai quali ricevere informazioni inerenti la malattia dolore e i centri locali preposti alla sua cura.

In tutte le tappe, a coloro che visitavano il desk informativo è stato sottoposto un questionario, volto a verificare la prevalenza del dolore cronico tra la popolazione, i trattamenti antalgici in uso e il livello di conoscenza della Legge 38/2010. In totale, hanno risposto 1.830 cittadini.

Analizzando in dettaglio i risultati dell’indagine CU.P.I.DO., si evince che il dolore cronico affligge il 67,3% di coloro che si sono recati al gazebo ma soltanto il 50,9% è seguito da un medico e il 52,3% non ha alcuna terapia in corso. L’origine della sofferenza è di natura non oncologica per il 93,4% del campione e, nel 45,2% dei casi, è dovuta all’artrosi; benché la sua intensità sia di grado moderato-severo, gli antinfiammatori non steroidei sono i farmaci analgesici più impiegati ma alleviano i sintomi solo al 16,9% degli intervistati. Si conferma, infine, il pesante impatto del dolore sulla vita quotidiana, che risulta compromessa per quasi 9 pazienti su 10.

“La survey che abbiamo condotto - spiega Marta Gentili, presidente dell’Associazione vivere senza dolore – ha evidenziato come i centri dedicati alla cura del dolore siano ancora poco noti sul territorio: molti cittadini, ignorando i contenuti della Legge 38, non sanno dove recarsi per chiedere assistenza e finiscono così per ricevere terapie che non rispondono alle loro esigenze antalgiche”.

 “La Legge 38 ‘obbliga’ il medico a prendersi cura del dolore, qualunque ne sia la causa”, ha affermato Guido Fanelli, coordinatore della Commissione Ministeriale sulla terapia del dolore e le cure palliative, spiegando che “un approccio così innovativo va inevitabilmente a scardinare abitudini ormai consolidate e richiede quel cambiamento culturale che solo un’adeguata formazione può favorire. A questo proposito, il ministero della Salute ha predisposto con il Miur un documento tecnico sui percorsi formativi degli addetti ai lavori, approvato a dicembre dal Consiglio Superiore di Sanità. Con le varie sigle della medicina generale, abbiamo inoltre stabilito di prevedere un unico iter didattico sulla terapia del dolore e le cure palliative, per garantire ai medici di famiglia una preparazione uniforme. Sul fronte appropriatezza prescrittiva, la battaglia è ancora aperta, poiché sta crescendo il consumo di oppioidi ma l’abuso di Fans permane; proprio per vigilare sulla qualità dell’assistenza erogata, abbiamo istituito il Cruscotto, un software che monitora le prestazioni ospedaliere e la tipologia delle prescrizioni".
Non solo. Di recente il Ministero ha anche dato avvio alla campagna informativa “Non ti sopporto più”, rivolta direttamente alla popolazione, per sensibilizzarla sulla terapia del dolore.

Sempre nell’ambito dell’informazione ai cittadini, una giornata del tour CU.P.I.DO. ha visto il coinvolgimento del Policlinico Tor Vergata di Roma, che ha consentito di svolgere un’indagine anche su 200 pazienti ricoverati in 11 reparti della struttura ospedaliera, per appurare se la sofferenza fisica fosse correttamente monitorata e trattata. “I risultati ottenuti – spiega l’Associazione -, dopo la sorpresa iniziale, hanno stimolato una maggiore attenzione al problema nei vari reparti”. Infatti quasi il 73% dei ricoverati presentava un dolore di intensità elevata, nonostante fosse stato prescritto un farmaco analgesico al 71,4% degli intervistati. Il ricorso agli oppioidi forti era disomogeneo e oltre il 54% dei pazienti si dichiarava insoddisfatto del trattamento ricevuto, prescritto dallo specialista del dolore solo nel 28,7% dei casi.

“L’esperienza si è rivelata estremamente utile – ha spiegato Antonio Gatti, professore aggregato di Anestesia e terapia del dolore, Università degli Studi di Roma Tor Vergata e Fondazione PTV Policlinico Tor Vergata - perché ha favorito una più profonda presa di coscienza, potenziando la collaborazione delle varie unità operative ospedaliere con il nostro Hub e consentendoci di essere sempre più vicini ai bisogni della cittadinanza. Una reale integrazione delle competenze tra le diverse figure professionali è il passo fondamentale per giungere alla multidisciplinarietà delle cure anche in ambito dolore. In tal modo potremo davvero garantire ai pazienti il diritto a non soffrire, come sancito dalla nuova normativa”.

Alla luce delle problematiche e dei bisogni informativi emersi con il tour CU.P.I.DO., l’Associazione vivere senza dolore ha annunciato che proseguirà il cammino intrapreso e organizzerà, dal 15 febbraio al 30 giugno 2012, una nuova campagna itinerante denominata HUB2HUB, coinvolgendo circa 15 importanti centri di terapia del dolore in tutta Italia.


Farmacia Maddaloni

giovedì 19 gennaio 2012

Ricerca italiana. Nuove possibilità per terapie anti osteoporosi e metastasi ossee


 
Dal Bambino Gesù di Roma e dall’Università de L’Aquila arriva uno studio che mostra come funzionano le cellule del nostro scheletro e che aiuterà a prevenire patologie ossee e altre malattie. La ricerca è stata pubblicata su Nature Communications.
 
19 GEN - La salute delle ossa è estremamente importante per una crescita armonica e per il benessere generale sia dei bambini che degli adulti: una buona funzione dello scheletro influenza positivamente quella di tutti gli altri organi del corpo umano. Oggi, grazie ad uno studio dell’Università de L’Aquila, in collaborazione con l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, conosciamo meglio i meccanismi che regolano il metabolismo delle cellule presenti nelle ossa. Lo studio condotto dagli scienziati italiani e pubblicato su Nature Communications potrebbe aiutare anche nella cura dell’osteoporosi e nella prevenzione delle metastasi.

La salute delle ossa è di fondamentale importanza per poter condurre una vita normale già dall’infanzia: ecco perché i ricercatori dei due istituti italiani hanno pensato questo studio, il cui obiettivo era comprendere come alcuni fattori importanti per le cellule ossee lavorassero in maniera coordinata per permettere una normale funzione del tessuto e come questi fossero alterati in una serie di patologie che vedono coinvolto lo scheletro.

Lo studio, in particolare voleva studiare il funzionamento della proteina interleuchina 6 (IL-6), che ha un ruolo fondamentale nella febbre e nelle fase acuta della risposta infiammatoria, nonché è implicata in numerose malattie come diabete, aterosclerosi, depressione, Alzheimer, cancro e artrite reumatoide.  “Da molti anni stiamo studiando il ruolo svolto dalla molecola nelle malattie infiammatorie dei bambini, che riducono la loro crescita e li predispongono allo sviluppo di osteoporosi in età precoce” ha spiegato Anna Maria Teti, coordinatrice della ricerca. “In questo studio abbiamo dimostrato che l’IL-6 non lavora da sola, ma lo fa insieme ad una molecola importante per la funzione delle cellule ossee che si chiama c-Src, e lo fa in modo molto complesso, con l’intervento di almeno un’altra molecola nota come IGFBP5.”

Dal lavoro italiano emergono anche nuove informazioni, che potrebbero essere utili nel trattamento clinico nelle patologie ossee. “L’aspetto forse più interessante della ricerca – ha aggiunto Fabrizio De Benedetti, responsabile dell’unità di reumatologia dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù – è che se inibiamo nel topo la proteina c-Src, l’osso ritorna normale anche se l’IL-6, e dunque l’infiammazione, rimane elevata. Questo è particolarmente importante visto che sono attualmente in sperimentazione farmaci sia contro l’eccesso di IL-6 sia contro c-Src che un domani potrebbero essere utilizzati anche nell’uomo”.
La ricerca è andata ancora più a fondo rispetto ad alcuni meccanismi che collegano l’interleukina-6 all’osteoporosi. “In condizioni normali le nostre ossa sono sottoposte a due eventi contrapposti: la distruzione del tessuto vecchio, mediata da cellule chiamate osteoclasti, e la formazione di nuovo tessuto, causata invece dagli osteoblasti”, ha spiegato Barbara Peruzzi, che ha ideato lo studio. “Nelle persone sane fra questi due eventi c’è un equilibrio perfetto, mentre il nostro studio ha evidenziato che in presenza di elevati livelli di IL-6, tramite le alterazioni di c-Src e di IGFBP5, le ossa di animali da esperimento vanno incontro ad osteoporosi”.

Ma lo studio potrebbe non riguardare solo questo tipo di malattie. “Il meccanismo sembra avere un ruolo cruciale anche in cellule diverse da quelle ossee, come cellule tumorali e cellule coinvolte nei processi d’infiammazione”, ha continuato la ricercatrice. “L’inibizione di c-Src riduce notevolmente la formazione di metastasi ossee e l’induzione di processi infiammatori in esperimenti su topi, lasciandoci sperare che lo studio che abbiamo condotto possa fornire benefici tangibili anche per le malattie umane di tipo oncologico e su base infiammatoria.
Soprattutto, dicono i ricercatori, potrebbe aiutare nello sviluppo di terapie contro i tumori che emergono in età precoce. “Abbiamo ottenuto dati preliminari che indicano come queste molecole possano essere determinanti anche nell’insorgenza di un tumore pediatrico molto aggressivo come l’osteosarcoma – ha concluso Peruzzi – grazie a questi primi risultati abbiamo ottenuto un finanziamento triennale dalla Fondazione Italiana per la Ricerca sul Cancro”. Con il quale, fanno sapere i ricercatori, continueranno il loro lavoro.

fonte: ilfarmacistaonline.it

mercoledì 11 gennaio 2012

A sette anni dal divieto siamo ancora un Paese di fumatori.




 
Era il 2005, quando l'allora ministro della Salute Sirchia decretò il divieto di fumo nei luoghi pubblici. Il calo dei consumi c'è stato (- 12% dal 2004) ma milioni di italiani non hanno perso l'abitudine. Tra 70 e 83mila le morti attribuibili al fumo. Ecco il Rapporto annuale del ministero della Salute.
 
11 GEN - A sette anni dall’entrata in vigore della Legge Sirchia, il fumo è ancora un problema prioritario di sanità pubblica.
Anche se buoni risultati sono stati ottenuti per la tutela dei non fumatori, grazie al successo della legge tuttora ampiamente rispettata, molte sono ancora le attività in corso per la riduzione dei fumatori attraverso la prevenzione dell’iniziazione e il sostegno alla cura.

Dall’elaborazione dei dati dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), nel corso del 2010 si stima che le vendite di sigarette si siano ridotte del 2,4%, rispetto al 2009 (quasi 1 pacchetto in meno al mese acquistato da ciascun fumatore).
Per la prima volta dal 1997, le vendite sono scese sotto la soglia dei 90 milioni di kg. La diminuzione delle vendite di sigarette è pari a circa il 12% in meno rispetto al 2004.

Prevalenza in Italia
Se diamo uno sguardo ai numeri, secondo i dati ISTAT, abbiamo che su 52 milioni di abitanti con età superiore ai 14 anni i fumatori sono circa 11,6 milioni (22,3%) di cui 7,1 milioni di uomini (28.4%) e 4,5 milioni di donne (16.6%).
Nel 2003, prima della legge 3/2003, la prevalenza dei fumatori era del 23,8% (31% gli uomini e 17,4% le donne) con un calo complessivo dell’6,3% (-8,4% gli uomini e -4,6% le donne); è da 7 anni, quindi, che il numero di fumatori in Italia oscilla intorno a valori compresi tra il 22% e il 23%, senza che si riesca ad ottenere una riduzione più significativa.
I valori più alti per gli uomini si hanno tra i giovani adulti di età compresa tra i 25 e i 34 anni, con una percentuale del 38,9% mentre per le donne la classe con una prevalenza più alta è quella tra i 45 e i 54 anni con una percentuale del 23,3%, stabile invece, la prevalenza tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni con un valore di 21,4% (26,5% i maschi e 15,9% le femmine).
Dal punto di vista territoriale, la più alta percentuale di fumatori si osserva nell’Italia centrale (24,7%) costante nel tempo, seguono il sud e le isole (21,9%), e il nord (21,5%) che invece sono in calo rispetto agli anni precedenti.
Riguardo i giovanissimi infine dall’indagine Global Youth Tabacco Survey che nell’anno scolastico 2009/2010 ha coinvolto 1800 ragazzi di 13, 14 e 15 anni, risulta che il 46% ha ammesso di aver fumato almeno una volta nella vita e il 92% di loro ha dichiarato che i rivenditori non si sono mai rifiutati di vendergli le sigarette nonostante l’età.

Mortalità da “fumo” in Italia
Si stima che siano attribuibili al fumo di tabacco in Italia dalle 70.000 alle 83.000 morti l’anno. Oltre il 25% di questi decessi è compreso tra i 35 ed i 65 anni di età.
Il tabacco è una causa nota o probabile di almeno 25 malattie, tra le quali broncopneumopatie croniche ostruttive ed altre patologie polmonari croniche, cancro del polmone e altre forme di cancro, cardiopatie, vasculopatie.
La mortalità e l’incidenza per carcinoma polmonare sono in calo tra gli uomini ma in aumento nelle donne, tra le quali questa patologia ha superato abbondantemente quella del tumore allo stomaco, divenendo la terza causa di morte per patologie tumorali, dopo mammella e colon-retto.
Anche se negli ultimi 50 anni si è assistito in Italia, come in tutto il mondo occidentale, ad una graduale diminuzione dei fumatori, nel nostro Paese il fumo attivo rimane la principale causa di morbosità e mortalità prevenibile.

Vendita di sigarette e altri prodotti del tabacco
Dall’elaborazione dei dati dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), nel corso del 2010 si stima che le vendite di sigarette si sono ridotte del 2,4%, rispetto al 2009. (quasi 1 pacchetto in meno al mese acquistato da ciascun fumatore). Per la prima volta dal 1997, le vendite sono scese sotto la soglia dei 90 milioni di kg.
La diminuzione delle vendite di sigarette è pari a circa il 12% in meno rispetto al 2004.
E’ da notare, tuttavia, nell’ultimo anno, un ulteriore notevole aumento (+29.5%) delle vendite del tabacco trinciato (per le sigarette “fai da te”: RYO – Roll Your Own), le cui vendite sono più che triplicate (+204%) dal 2004. Questo tipo di tabacco, che rappresenta attualmente il’2,2 % del mercato, ha un costo inferiore rispetto alle sigarette ed è, quindi, particolarmente “appetibile” per i giovani consumatori.
       






Fonte: Ilfarmacistaonline.it

lunedì 2 gennaio 2012

Leucemia mieloide cronica. La cura grazie all’olio di pesce

Che gli Omega3 facciano bene al nostro organismo è risaputo. Ma che possano addirittura curare la leucemia è una notizia del tutto inaspettata: la scoperta è stata fatta da un gruppo di ricerca della Penn State University e pubblicata sulla rivista Blood. La molecola delta-12-protaglandin J3 (D12-PGJ3), uno degli acidi grassi che possono essere prodotti a partire dall’olio di pesce, ha infatti dimostrato di essere capace di uccidere le cellule staminali della leucemia mieloide cronica (CML) nei topi.

“Le precedenti ricerche condotte sugli acidi grassi avevano dimostrato i loro effetti benefici sul sistema cardiocircolatorio e sullo sviluppo cerebrale, soprattutto nei bambini”, ha spiegato Sandeep Prahbu, docente di immunologia e tossicologia molecolare alla Penn. “Ma oggi abbiamo dimostrato che queste molecole sono capaci di curare completamente la leucemia su modello animale, senza che ci sia pericolo che questa si ripresenti”.

Il segreto della molecola dalla lunga sigla è che attiva il gene p53, che codifica l’omonima proteina dalla proprietà di oncosoppressore, notissima ai medici perché capace di prevenire le mutazioni genetiche e sopprimere i tumori nascenti. In particolare, nel caso della CML, la proteina aiuta non solo a fermare la divisione delle cellule staminali del cancro, che produrrebbero altre unità tumorali, ma anche ad uccidere le stesse staminali malate. “La terapia corrente per curare la leucemia cronica è quella di evitare che le cellule si riproducano iniettando continuamente medicinali”, ha spiegato Robert Paulson, che ha co-diretto la ricerca con Prabhu. “I trattamenti in generale falliscono proprio per questo: non uccidono le staminali, ma ne fermano solo la riproduzione. Finché queste a un certo punto non sviluppano resistenza ai farmaci e dunque i sintomi si ripresentano”.
Gli acidi grassi, invece, aggirano questo problema, uccidendo le staminali del cancro con pochissimi effetti collaterali. Per dimostrarlo i ricercatori hanno iniettato in ogni topo circa 600 nanogrammi di D12-PGJ3 ogni giorno per una settimana. Alla fine di questo periodo le cavie risultavano completamente guarite: l’emocromo risultava rinormalizzato e la milza riprendeva le sue corrette dimensioni. Inoltre – cosa ancor più importante – i roditori non erano soggetti a ricadute.

Gli scienziati statunitensi sperano di poter trattare con la molecola D12-PGJ3 anche i casi terminali di leucemia mieloide cronica, ovvero quelli che si trovano nella cosiddetta crisi blastica, stadio in cui la malattia evolve in una condizione refrattaria a pressoché ogni terapia. “Abbiamo anche iniziato la procedura per depositare un brevetto”, hanno fatto sapere. “E presto partiranno i test clinici sugli esseri umani”.


Farmacia Maddaloni.